THE IRON LADY

di Phyllida Lloyd con Meryl Streep, Jim Broadbent e Richard E. Grant

Dalla regista che ci ha regalato, senza averglielo chiesto, Mamma Mia, ecco un nuovo biopic questa volta su Margaret Thatcher. Un film che si appoggia al 100% sull’immensa e ormai indiscussa bravura e professionalita’ di Meryl Streep, ma che presenta grosse lacune in altri ambiti, dalla sceneggiatura alla costruzione narrativa.

Phyllida Lloyd punta tutto su Meryl Streep e indubbiamente l’attenzione dello spettatore e’ costantemente catturata dall’eclettica protagonista, ma a volte pare che la scrupolosa interpretazione della Streep sia eccessivamente ingombrante e cerchi di eclissare tutti i difetti di una sceneggiatura approssimativa e piuttosto banale, provando (invano) a far passare in secondo piano alcuni spunti e prese di posizione discutibili.
Da vedere assolutamente in lingua originale – ove possibile – The Iron Lady dovrebbe essere bandito ai doppiatori, e come nel caso di The King’s Speech – dal quale tra l’altro plagia la parte del training di dizione – e’ un film che va apprezzato in tutte le sue sfumature linguistiche e culturali. Per Meryl Streep e’ un ottimo viatico verso l’ennesima candidatura all’Oscar, con un impeccabile accento british, impeccabili tic e movenze studiate nei minimi dettagli, e un’impeccabile dedizione alla causa.
Ma dov’e’ che il film delude o quantomeno non convince?
A Phyllida Lloyd sembra non importare piu’ di tanto analizzare i fatti storici e politici con accuratezza e interesse, quanto piuttosto presentarli slegati da qualsiasi contesto con flashback calcolati. Il fatto poi di dare a The Iron Lady un taglio nettamente femminista, rende la Thatcher inattaccabile e immune ad ogni critica, come se bisognasse ammirarla e rispettarla solo per essere donna. La Thatcher non e’ una donna “normale”, pur con tutti i suoi difetti dovuti a un difficile periodo storico e una famiglia non proprio ordinaria, aveva le sue idee, i suoi fermi principi, ha messo la sua carriera e i suoi ideali davanti a famiglia e benessere, e ha rischiato vita e faccia per il suo paese. Non e’ solo una donna.
In parlamento, poi, lei non era l’unica, come invece si vede nelle prima parte del film. Ma la stessa regista, come si legge su imdb , ha voluto che non ci fossero altre donne per enfatizzare il punto di vista della Thatcher e per amplificare la sua lotta in un mondo di uomini vestiti di nero col cappello. E inoltre, la superficialita’ con cui viene analizzato il suo operato, preferendo insistere sulle visioni del marito-fantasma e sui suoi problemi senili, non fa di certo rientrare The Iron Lady tra i grandi biopic della storia del cinema. Un’occasione mancata il cui unico pregio e’ ribadire l’estrema duttilita’ di Meryl Streep e darle occasione di vincere un altro Oscar. Nient’altro.
VOTO: 6

A LONELY PLACE TO DIE

(2011) di Julian Gilbey con Melissa George, Ed Speleers e Eamonn Walker

Vi ricordate Un Tranquillo Weekend di Paura o Picnic a Hanging Rock? Trasferite tutto sulle highlands scozzesi, aggiungete una bambina reclusa in una cassa interrata e avrete A Lonely Place To Die, l’ultima fatica di Julian Gilbey.
Presentato alla scorsa edizione del London FrightFest e anche a diversi altri festival in giro per il mondo, ALPTD ha certamente attirato l’attenzione del pubblico e creato momenti di ansia intensi, ma  qualcosa lascia l’amaro in bocca ai titoli di coda.
Un gruppo di cinque amici scalatori decide di avventurarsi sulle highlands per godersi alcuni giorni di camminate e arrampicate in uno dei piu’ suggestivi luoghi del mondo. Improvvisamente uno di loro nota un tubo uscire dal terreno e scavando scoprono che c’e’ una bambina intrappolata in una cassa con solo una bottiglia d’acqua e niente cibo. Inizia cosi una frenetica corsa per sfuggire a criminali assassini e per portare la bimba in salvo.
Dopo un inizio tranquillo e descrittivo in cui le highlands la fanno da padrone grazie a spettacolari inquadrature aeree, inizia l’azione, e la parte centrale del film e’ indubbiamente la meglio riuscita. La caccia in stile Cliffhanger, La Preda o Il Fuggitivo e’ sorprendentemente efficace, con riprese frenetiche al cardiopalma, colpi di scena inaspettati e tocchi cruenti che non stonano con l’evolversi della storia.
Man mano che la matassa si dipana, pero’, il ritmo cala e alcuni spunti narrativi lasciano interdetti e non tutto scorre liscio. Il finale e’ anche piuttosto prevedibile, ma rimane in sintonia con l’atmosfera cupa e cinica dell’intero film. Peccato anche per il poco approfondimento dei vari personaggi, ma Melissa George (Triangle, 30 Days of Night) e’ in gran forma e sfoggia notevoli capacita’ di arrampicatrice, cosi’ come e’ stato un piacere ritrovare Ed Speelers, lontano anni luce dal ruolo di Eragon che nel 2006 gli brucio’ la carriera sul nascere.

VOTO: 6.5

DREAD

(2009) di Anthony DiBlasi con Jackson Rathbone, Hanne Steen e Laura Donnelly

Che cos’e’ normale? Perche’ ci preoccupiamo in continuazione di quello che pensano gli altri? Che cos’e’ che ci terrorizza sul serio? E perchè non siamo mai in pace con noi stessi?
Dread dovrebbe esaminare cio’ che piu’ spaventa ognuno di noi e farci affrontare le nostre paure per esorcizzarle, ma purtroppo il bersaglio e’ mancato in pieno e di pauroso c’e’ veramente poco.
Stephen e’ uno studente universitario che viene coinvolto in un progetto di cinema grazie alle capacita’ dialettiche e persuasive del suo compagno di corso Quaid, ma il viaggio dentro le paure e paranoie oggetto del documentario che girano, finiranno per scatenare reazioni cruente e inaspettate.
Tratto dalla storia breve Dread di Clive Barker, il primo lungometraggio di Anthony DiBlasi stravolge e rivisita personaggi e trama lasciando qualche frase del racconto in qua e in la’ per ricordarci che siamo sempre dentro l’immaginazione di Barker, ma la confusione che si crea non rende giustizia al geniale autore di Hellraiser.
Stilisticamente Dread presenta sicuramente alcuni pregi: inquadrature che trasmettono inquietudine e ansia – come la camera attaccata all’ascia mentre sbatte sui gradini delle scale, o angoli di ripresa che ricordano alla lontana Hitchcock – come anche effetti visivi efficaci e crudi, ma l’approfondimento psicologico e filosofico, lungamente trattato nel racconto, nel film viene evitato quasi del tutto, o sfiorato a tratti sfoggiando frasi prese pari pari e copiate&incollate in una sceneggiatura sempre al limite del comprensibile.
Il filo conduttore della storia cartacea e’ l’analisi continua di cio’ che ci impedisce di vivere serenamente, delle nostre paure più recondite, siano traumi del passato, scelte del presente o imbarrazzanti macchie della pelle. Il film, pero’, trasforma queste paure e paranoie dei personaggi in pretesti per cercare di spaventare o inorridire, non facendo i conti con l’intelligenza del pubblico, e volendo creare spunti che finiscono solo per deviare dal concetto principale e sfociando nella crudezza – e nella crudeltà – fine a se stessa.
Paure, ansie, ostacoli, vergogne, paranoie, indifferenza… che senso ha quindi vivere? Solo quando si accetta il fatto che, alla fine, la vita di valore non ne ha neanche un po’, forse è il momento in cui si inizia ad apprezzarla veramente.

VOTO: 5.5

MANHATTAN

di Woody Allen con Woody Allen, Diane Keaton e Mariel Hemingway

Possibile che non avessi ancora visto Manhattan?
La mia lista d’attesa di film è piena di classici che aspettano il giorno e il momento giusto, e oggi è stato il giorno e il momento di uno dei film più interessanti di Woody Allen.

Isaac è divorziato, ha 42 anni e frequenta una ragazzina di 17. Le cose si complicano quando inizia a uscire con l’amante del suo migliore amico e la situazione già cerebrale diventa un vortice di complessi esistenziali, morali e intellettuali che faranno rendere conto al nostro protagonista che diventa inutile complicarsi inutilmente la vita.

Manhattan rispecchia perfettamente lo stile classico di Woody Allen, con dialoghi a raffica, battute al vetriolo su politica, religione e società, con riferimenti continui a cinema, arte e letteratura, ma soprattuto con una freschezza e una originalità che tuttora non rendono il film per niente datato. Le frecciate alla politica americana, alla tv che intontisce, alla musica “moderna” e alle mille contraddizioni di New York, vengono contrastate dall’amore che il regista prova per la sua città. Manhattan è un’ode a New York, una lettera d’amore cinematografica in bianco e nero a una città che tra tanti luoghi comuni riesce però a far innamorare di sé e a non farsi mai lasciare.
Il cervello è l’organo più sopravvalutato, dice Isaac (Allen) a un certo punto controbattendo a una iper-cerebrale Lucy (Diane Keaton) ed effettivamente è proprio questo il nocciolo dell’intero film. Le persone si perdono in circoli viziosi cerebrali da cui pare impossibile uscire, ma nelle relazioni tutto dovrebbe essere semplice e naturale. Se si analizza estenuamente ogni singolo dettaglio, atteggiamento, paura o sensazione, allora si perde la magia del momento. Isaac e Lucy seduti all’alba sulla panchina davanti al Queensboro Bridge, nella famosa inquadratura, sono emblema di questo. Nei brevi momenti in cui tutto sembra perfetto, il cuore si scioglie e quello che si prova non può essere spiegato a parole. E’ semplicemente così.
Bisogna avere fiducia nelle persone, viene detto ad Isaac alla fine del film, e non importa se le circostanze non sono ideali, se la ragazza a cui chiede perdono ha appena compiuto 18 anni e se sta per partire per Londra per sei mesi.
Se due persone vogliono stare insieme c’è solo una cosa che importa…

VOTO: 8

KILL LIST

di Ben Wheatley con Neil Maskell, MyAnna Buring and Michael Smiley

Acclamato dalla critica dopo la presentazione al London FrightFest e nominato come miglior film inglese ai London Film Critics Circle Awards 2011, Kill List era atteso al varco dell’uscita cinematografica per confermare le voci di rivelazione dell’anno. Purtroppo il successo non è stato quello sperato, ma comunque ha sicuramente alzato il livello con cui i prossimi film thriller-horror di produzione britannica si dovranno confrontare.

Jay è un killer dal passato nebuloso che dopo un periodo di inattività decide di accettare solo per soldi un incarico che gli propone l’amico Gal, suo compagno di precedenti missioni, ma dalle intenzioni non chiare. Senza fare domande o chiedersi perchè e percome, i due iniziano a eliminare i personaggi della lista, ma Jay verrà trascinato suo malgrado in un vortice di follia e delirio da cui sarà impossibile uscirne.

Gli omaggi che il regista Ben Wheatley fa ad altri film sono parecchi e palesi, soprattutto a The Wicker Man e A Serbian Film, ma ciò che più sorprende di Kill List è la lucidità con cui si esamina la follia di Jay. Coinvolto in qualcosa di più grande di lui, il personaggio interpretato da Neil Maskell subisce una metamorfosi che assume significato solo al termine del film, costringendo lo spettatore a mettere insieme i vari tasselli disseminati lungo l’arco della vicenda.
La continua e costante tensione creata da una musica monotona e snervante accompagna i protagonisti a partire dall’apparentemente blando inizio fino all’apoteosi finale in cui tutto – o quasi – viene rivelato. Alcuni dettagli non sono spiegati largamente e lasciano perplessità e domande senza risposta, ma proprio per questo Kill List è un film che fa continuare a riflettere e a ruminare anche dopo i titoli di coda. Una visione non è forse sufficiente per cogliere i vari indizi e le sfumature della trama, ma è invece abbastanza per apprezzare l’intenso lavoro del cast e la regia a tratti spregiudicata e senza remore di Ben Wheatley che ci regala momenti di estrema violenza – ad esempio quando assistiamo alla seconda esecuzione di Jay con tanto di martellate in testa senza mai uno stacco, o la claustrofobica scena finale in labirintici cunicoli – alternati a momenti di scomoda vita familiare.
Un film di non semplice visione che richiede un certo impegno da parte dello spettatore e che intriga quasi di più dopo che durante, ma sono proprio queste le storie che non ci dimentichiamo appena togliamo gli occhi dallo schermo.

VOTO: 7.5