IMMATURI

di Paolo Genovese con Raul Bova, Ricky Memphis, Luca Bizzarri, Ambra Angiolini etc

Solo occasionalmente guardo film italiani e (quasi) ogni volta mi pento di averlo fatto.
Immaturi ha avuto un successo piuttosto sorprendente, e dopo tanto parlare – e un sequel in uscita a giorni – mi sono fatto vincere dalla curiosita’.
Errore madornale, come direbbe Schwarzy in Last Action Hero.

Un gruppetto di amici sui quaranta si ritrova a preparare di nuovo l’esame di maturita’ classica a causa di un pretesto narrativo che rende gia’ l’inizio inverosimile. Ognuno vive la propria esistenza con i soliti problemi, sogni e paranoie, ma rivedendosi riescono insieme a scacciare la malinconia e a trovare nuova fiducia nella vita e nel futuro.

L’idea di partenza e’ simpatica e piuttosto originale, peccato che tutta la struttura e lo svolgimento siano permeati da stereotipi e luoghi comuni a non finire, il tutto corredato da dialoghi, situazioni e monologhi banali sfilacciati tra loro e palesemente studiati a tavolino.
I discorsi da adulti disillusi contrastano con le case da catalogo e con la perfezione estetica che li circonda. Ogni personaggio e’ accuratamente incasellato in uno stereotipo gia’ visto in mille altre occasioni, senza nessuno spessore o storia ben approfondita, e la morale finale piuttosto superficiale e prevedibile senza nessun colpo di scena o risvolto inaspettato. Il regista prende per mano lo spettatore e lo accompagna fino alla fine senza mai fargli pensare o sospettare che qualcosa di stranno possa accadere. Raul Bova fa di tutto per essere inespressivo e poco credibile, mentre Ambra fa Ambra, Luca e Paolo fanno Luca e Paolo, Ricky Memphis fa Ricky Memphis – ma almeno e’ divertente – e gli altri fanno il minimo indispensabile. Immancabile anche il personaggio della bambina che parla come gli adulti di vita vissuta e problemi sessuali.
Per tutto il film si discute – superficialmente – di Epicuro e sulla fugacita’ della vita, di come sia importante carpire ogni momento e godersi il presente senza farsi ossessionare esageratamente dal futuro, ma alla fine tutto questo viene gettato nel pattume per un piu’ confortante “la vita e’ lunga e non e’ vero che puo’ finire da un momento all’altro”. E quindi? Solita morale trita e ritrita di coppie felici nonostante tutto – perche’ essere single e’ escluso da ogni possibilita’ – e superficialita’ dilagante, come ad esempio ‘avere un figlio risolve i problemi di una coppia’.
Ma chi si salva? Interessante mischiare abitudini e modi di fare e dire dei tempi del liceo, con quelli di oggi – messaggi, chat etc – peccato che rimanga tutto sempre superficiale e banale.  Ricky Memphis e’ probabilmente il personaggio piu’ divertente, coccolato e viziato dalla mamma fino all’inverosimile, ma neanche piu’ di tanto. Il Liceo Classico continua a essere l’unica scuola degna di essere rappresentata in un film italiano pur con tutti i suoi anacronismi e luoghi comuni. E la battuta sulla crema per il contorno occhi e’ azzeccata, anche se non c’e’ bisogno di tutta quella malinconia e rassegnazione…
Rimane il doppio significato del titolo, ma il film sorvola su ogni giudizio di cosa voglia dire essere immaturi, senza dare troppe spiegazioni… o forse ho fatto finta di non vederle?

VOTO: 5.5

MERRY F***ING CHRISTMAS

BAD SANTA (Babbo Bastardo)
di Terry Zwigoff con Billy Bob Thornton, Bernie MacTony Cox e Lauren Graham

Il mio film preferito di natale degli ultimi tempi rimane ancora Bad Santa.
Non voglio scomodare i soliti classici più o meno recenti – Una Poltrona per Due, S.O.S. Fantasmi, Il Grinch, Un Natale Esplosivo, Mamma Ho Perso l’Aereo etc – e quindi tra tutti i film natalizi mielosi, patetici e zeppi di noiosi luoghi comuni, Bad Santa sicuramente spicca e ci fa vedere un’altra faccia del “periodo più bello dell’anno”.
Dissacrante, volgare, cinico e blasfemo: questo è Willie, il babbo natale da grandi magazzini che interpreta Billy Bob Thornton in compagnia del suo aiutante “elfo” Marcus (Tony Cox), ugualmente sfacciato e immorale. Film scomodo e totalmente fuori da ogni canone natalizio voluto da Hollywood, Bad Santa fa riflettere e stimola a porsi delle domande. Cosa vuol dire essere felici? Che cos’è normale? Quali pericoli si corrono ad aprirsi troppo alle persone? E a cosa porta invece chiudersi alle emozioni? Forse il film non va troppo in profondità, ma dipende anche dallo stato d’animo dello spettatore e da cosa si vuole vedere. Certamente non si assisterà a trite cene o pranzi con cento regali sotto l’albero e tavolate di persone fintamente felici. Ma in fondo, se da fuori sembriamo felici non c’è nessun problema.
O forse si?

VOTO: 8


HOSTEL: Part 3

di Scott Spiegel con Thomas Kretschmann, Sarah Habel, Kip Pardue

Non sono mai stato un grandissimo fan della saga di Hostel.
A parte l’idea centrale originale e morbosa del club super esclusivo i cui selezionatissimi e ricchissimi membri non sono altro che sadici torturatori di innocenti e sconosciuti giovani, tutto il resto sembra un copia e incolla da qualsiasi commediola demenziale americana, con personaggi stereotipati, nudo gratuito e pochi colpi di scena. Il tutto è comunque corredato da plateali e rivoltanti effetti visivi che fanno passare la storia, i personaggi e lo svolgimento della trama in secondo piano.

Il solito gruppetto di amici decide di trascorrere a Las Vegas l’addio al celibato di uno di loro, ma verranno subito trascinati in un locale fuori mano dove saranno i protagonisti di sadici giochi di torture.

Per questo terzo episodio Eli Roth, ideatore e regista del primo e secondo capitolo, decide di non metterci mano per niente, così da rendere inevitabile l’uscita diretta in Dvd. E infatti i limiti della produzione semi low-budget si vedono tutti, ma grazie a una storia credibile, attori che tutto sommato si immedesimano bene nelle parti, ed effetti splatter sorprendentemente efficaci, Hostel 3 diventa, contro tutti i pronostici, un filmetto che non fa rimpiangere più di tanto i due sopravvalutati episodi precedenti. Questa volta l’azione si sposta nella più familiare Las Vegas e anche il meccanismo delle torture cambia sensibilmente, ma ciò che non cambia sono i viscidi personaggi dell’elitario club e le creative penitenze che gli sceneggiatori si inventano per i nostri malcapitati. Apprezzabili anche i colpi di scena disseminati qua e là nella trama per cercare di uscire dai binari dell’ovvio, anche se il finale è comunque piuttosto telefonato.
Con le premesse di questo terzo film, la saga di Hostel potrebbe protrarsi all’infinito, ma pensandoci bene non se ne sente proprio tantissimo la necessità.

VOTO: 6

A VERY HAROLD & KUMAR 3D CHRISTMAS

di Todd Strauss-Schulson con Kal Penn, John Cho and Neil Patrick Harris

Per chi non conosce la saga di Harold & Kumar questo terzo episodio non significherà granché, a parte qualche risata e una piacevole serata. Per chi invece conosce le vicende dei due fumati fin dai primi misfatti nel 2004, il capitolo natalizio sarà un degno seguito ai primi due, con riferimenti a passate gag, frecciate ad argomenti di attualità, e una caterva di volgarità demenziali.

Harold e Kumar si sono persi di vista da qualche anno. Il primo ha un lavoro importante, una moglie bellissima, una casa enorme e ha smesso di fumare marijuana. Il secondo è di nuovo single, non ha un lavoro, vive nello stesso appartamento di sempre e fuma marijuana dalla mattina alla sera. Un misterioso pacco natalizio li riunisce e farà da scintilla a una serie inaspettate e improbabili vicende all’insegna della follia più assoluta.

In questo terzo episodio si trova di tutto: Danny Trejo nei panni del padre della moglie di Harold, Neil Patrick Harris di nuovo nel ruolo di se stesso, una bambina sotto coca, marijuana e pastiglie, un killer, gole sgozzate, un intermezzo di animazione in pongo, babbo natale con la testa spaccata, un robot che sforna waffles, e volgarità a non finire. Come previsto, però, tutto lo sporco viene coperto nella parte finale da uno strato di buoni sentimenti natalizi e ovvietà mielose che rendono un tantino patetico il finale della storia.
Ma davvero si è veramente felici nella vita solo quando si è sposati? o si aspetta un figlio? Se poi il tutto succede sotto natale allora il quadro è completo.
L’originalità dei primi due capitoli, e specialmente del secondo, qui scema sensibilmente lasciando spazio a gag e vicende tutto sommato prevedibili. Ciò che sorprende invece sono i dettagli, come lo spumeggiante cameo di Neil Patrick Harris, le sequenze con la bimba che assume droghe involontariamente, lo psichedelico interludio d’animazione, le battute razziste auto-ironiche su gay, asiatici e messicani, e anche un uso del 3D piacevolmente avvolgente e volutamente esagerato. Non diventerà un classico di natale, o un anti-classico – il top rimane ancora il ruvidissimo ma esilarante Bad Santa – e certamente non regge il confronto con i precedenti due film, più diretti e meno preoccupati del politically correct, ma è sempre divertente assistere alle disastrose vicende dei due scapestrati.

VOTO: 6.5

50/50

di Jonathan Levine con Joseph Gordon-Levitt, Seth Rogen e Anna Kendrick

Non è facile conciliare dramma e commedia. Cercare di alleggerire un argomento drammatico e far ridere, peró facendo riflettere allo stesso tempo, è un compito arduo e delicato, ma se chi scrive la sceneggiatura ha vissuto sulla propria pelle la drammatica vicenda, allora forse le cose si semplificano. Certo, si toglie un po’ di pathos alla storia, dato che si intuisce facilmente che la fine del film non sarà così drammatica, ma sicuramente è anche più semplice scherzarci sopra.

Adam (Joseph Gordon-Levitt) ha 27 anni, un lavoro, una ragazza e scopre un giorno di avere il cancro. Inizia così un lunga fase di confusione emozionale e sofferenza che gli insegnerà ad apprezzare la vita e le persone in maniera diversa. Grazie al suo amico Kyle (Seth Rogen) e alla psicologa Katherine (Anna Kendrick) riuscirà ad affrontare la malattia e le pesanti cure con più leggerezza e ironia, ma non per questo il percorso sarà meno arduo.
Come detto é complicato far stare in equilibrio dramma e commedia – l’esempio piú riuscito in assoluto é ovviamente La Vita é Bella – ed é proprio questo il problema fondamentale del film. Tutto il peso della leggerezza comica é sulle spalle di Seth Rogen, istintivo, volgare, impulsivo, ma perfetto per sdrammatizzare la difficile situazione, mentre il personaggio di Joseph Gordon-Levitt é sempre combattuto tra indifferenza, depressione, rabbia, rassegnazione e voglia di vivere nonostante tutto. Tutti sentimenti plausibili e verosimili, ma per qualche motivo é difficile immedesimarsi ed empatizzare con lui. Per prima cosa non si teme mai veramente per la sua vita – vedi sopra – secondo, pare che l’interpretazione del giovane attore sia troppo essenziale e tra le righe, in netta contrapposizione con quella del suo sboccato compare. La psicologa apre certamente un varco nel suo mondo chiuso e perfetto dove tutto é in ordine, ma alla fine quello a cui vorremmo assistere é il seguito. Cosa succede dopo che lui chiude la porta? In che maniera é veramente cambiato? Le risposte sono implicite e anche piuttosto chiare, ma forse é proprio questo il punto: per quanto coinvolti dalla storia umanamente vera, tutte le emozioni piú profonde sono implicite e non sullo schermo.

VOTO: 6

THE HUMAN CENTIPEDE 2: FULL SEQUENCE

di Tom Six con Laurence R. Harvey

Quale film migliore di The Human Centipede II: Full Sequence per inaugurare la categoria Horror del nuovo blog?
A dir la verità è orrendo, disgustoso, malato e ci si sente quasi masochisti a guardare un film del genere, però nel suo delirio ed esagerazione è innegabile che il regista olandese abbia dato una ventata di aria fresca al mondo dell’horror. Il geniale primo capitolo è diventato un cult grazie alle polemiche legate alla censura e al passaparola della rete, ed era quindi inevitabile che Tom Six desse un seguito, e anche un già annunciato terzo capitolo, alle vicende del Dr.Heiter.

Martin è un uomo solo che vive con la madre, semi-deforme, complessato, traumatizzato da un padre violento e incastrato in una vita senza senso il cui unico barlume di significato glielo regala proprio il film The Human Centipede, che lui vede e rivede durante il suo noioso lavoro come guardiano notturno in un parcheggio sotterraneo di Londra.
E’ talmente influenzato dal film che decide di mettere in atto lui stesso l’esperimento dello squilibrato medico, e così dopo aver catturato e messo insieme dodici cavie all’interno di un sudicio e squallido capannone, Martin inizia il disgustoso procedimento.
Per questo seguito Tom Six decide di utlizzare il bianco e nero, nonostante l’abbia girato a colori, ma ciò non toglie alcunchè al risultato finale né, a dire il vero, aggiunge niente. La trama è piuttosto esile, Martin non pronuncia una parola durante tutto l’arco del film e ciò che veniamo a sapere di lui lo urla l’insopportabile madre.
Per i primi quarantacinque minuti THC2 fatica a prendere il volo, il ritmo è lento, i dialoghi sterili e tutto il peso del film è basato sugli occhi da viscido psicopatico e sul fisico improponibile del suo peculiare protagonista. Ma quando tutto è pronto per l’inizio dell’esperimento, il film cambia registro e tutto quello che non si è visto nel primo capitolo, qui è largamente mostrato. Inutile entrare nei particolari, ma gli ultimi quarantacinque minuti sono un delirio di chirurgia sommaria e un festival di disgustose conseguenze.
Se il primo film si basava più sull’idea di come realizzare un millepiedi umano – asserendo oltretutto che ogni dettaglio fosse scientificamente corretto – in questo sequel la storia è semplicemente un inutile pretesto per mostrare quante più nefandezze possibili.
Tom Six gioca sull’ironia e su uno humour molto nero per ribattere ai tanti detrattori del suo precedente film, ma sfortunatamente questa volta cade con un piede nel cattivo gusto gratuito e senza motivazioni plausibili. Grazie a film come The Human Centipede o A Serbian Film il fondo del malato e perverso è stato abbondantemente toccato e sfondato a sua volta, ma finchè c’è una base narrativa di denuncia o di protesta sociale-culturale, o semplicemente una buona idea, allora si accetta ogni disgustoso dettaglio. Ma se non viene trasmessa nessuna idea o nessuna tesi, per quanto horrorifica o delirante, allora non considero centrato il bersaglio. Ok ironia, macabro sarcasmo, sangue, teste spaccate e quant’altro, ma un tale esercizio di stile platealmente rivolto alle censure di tutto il mondo mi sembra alquanto discutibile.

VOTO: 5

WE NEED TO TALK ABOUT KEVIN

di Lynne Ramsay con Tilda Swinton, John C.Reilly ed Ezra Miller

Qual é il punto?
Che cosa facciamo ogni giorno che abbia veramente un significato?
La risposta é che non c’é nessun punto e nessun significato in niente.
Questo é il pensiero costante che permea la mente del giovane Kevin (uno straordinario Ezra Miller) fin da bambino, quando anche solo parlare, mangiare o andare in bagno rappresentavano una serie di azioni senza alcun senso. Primogenito di Eva e Franklyn, genitori che cercano di amarsi e di amare i propri figli nella maniera piú standard possibile, Kevin cresce nell’indifferenza, nell’insofferenza e nel cinismo piú assoluto, fino al climax finale in cui realizza il suo atroce piano. Finale a cui siamo preparati fin dai primissimi minuti – addirittura fin dal trailer – ma dal quale non ci si puó riparare in nessuna maniera.

Vincitore di diversi premi tra cui Miglior Film al recente London Film Festival, l’ultima creatura di Lynne Ramsay é un film forte, crudo, essenziale, con pochi dialoghi e magistralmente composto, e con un uso della musica che stride con le situazioni a cui assistiamo, ma che non stona mai. Raccontato attraverso gli occhi di una magnifica Tilda Swinton e costruito lungo una linea temporale costantemente frammentata tra passato e presente, We Need To Talk About Kevin vede la straordinaria attrice androgina regalarci una delle sue interpretazioni piú intense e drammatiche di sempre nei panni della madre distrutta, incredula e ossessionata dalle terribili azioni del figlio. Un pesantissimo senso di colpa aleggia sopra il suo personaggio per tutta la durata della storia, ma lo scopo del film non é puntare il dito contro di lei – come fanno invece tutti gli altri, e non solo le persone direttamente coinvolte nel piano di Kevin – o contro Kevin, quanto piuttosto far riflettere sul perché accadano cose del genere.
Una giovane donna che non aveva pianificato di avere un figlio e che fa di tutto per accettarlo e sopportarlo; un figlio che fin da appena nato – o addirittura anche prima – sente e percepisce che sua madre fatica a essere tale; una madre che non nasconde lei stessa un forte senso di insoddisfazione della vita e nichilismo, e un figlio che prende come esempio proprio queste sensazioni; un padre che cerca di comportarsi in maniera “normale” perché in fondo una volta che si ha un figlio ci si rassegna a volergli bene nonostante tutto etc. Sono molti gli spunti di riflessione del film, ma su tutti il fatto che é tanto facile quanto inutile incolpare qualcuno. Figli e genitori sono legati a doppio filo, gli uni imparano e prendono esempio dagli altri e viceversa, ma spesso i figli colgono e copiano piú di quanto si immagini, generando, nel caso di Eva, un inguaribile senso di colpa.
E se non si vuole un figlio non é certo obbligatorio farlo. Non c’é ancora nessuna legge che costringe le persone ad avere per forza figli, e con tutte le precauzioni che esistono oggi é anche (quasi) impossibile che succeda per caso.
Eh sí, il pensiero fisso durante le quasi due ore di film é che avere figli é proprio una pessima idea.

VOTO: 8

LIKE CRAZY

di Drake Doremus con Anton Yelchin e Felicity Jones

Relazioni a distanza.
La cinematografia mondiale è piena di film che cercano di farci riflettere su come affrontarle o come risolvere i problemi che esse rappresentano. Like Crazy, però, non vuole dare risposte o soluzioni, vuole solo raccontare in maniera essenziale e cruda la rocambolesca vicenda di Anna e Jacob. Già premiato al Sundance e presentato anche al recente London Film Festival, il nuovo film del regista indie Drake Doremus ha creato non poche discussioni grazie al suo stile diretto e alle interpretazioni mature dei due giovani protagonisti.
Anna (Felicity Jones) inglese di Londra, Jacob (Anton Yelchin) americano di Los Angeles, si conoscono mentre lei frequenta come studente di scambio lo stesso college di lui, ma dopo essersi follemente innam*rati lei fa l’errore di prolungare il suo periodo all’estero senza ritornare in patria e rinnovare il visto. Le viene così vietato di entrare negli Stati Uniti a tempo indeterminato finché non si sarà risolta la faccenda per lunghe vie legali. Che fare? Lasciarsi e rassegnarsi malinconicamente alle circostanze? O tenere duro e provare ad andare avanti nonostante un oceano e un’intera nazione da attraversare ogni volta che Jacob decide di andarla a trovare?

Il pregio di Like Crazy e’ quello di non mostrare gli aspetti scontati della relazione, ma di concentrarsi sul contorno di preoccupazioni, problemi e paranoie che la giovane coppia deve affrontare. I momenti di felicita’ e spensieratezza che i due condividono sono raccontati attraverso veloci flash e immagini montate freneticamente, perché in fondo è scontato che senza pensare costantemente al futuro e vivendo il presente i due siano sereni e felici, quello che interessa approfondire, invece, sono le complicazioni. Complicazioni burocratiche e di vita quotidiana per due ragazzi che vorrebbero semplicemente condividere più tempo possibile insieme, e che il giovane regista Drake Doremus amplifica con stretti primi piani e soffocanti inquadrature fisse.
Per stravolgere poi un tantino la storia, altrimenti priva di colpi di scena veri e propri, vengono aggiunti anche un paio di personaggi che si intromettono nella già tormentata storia d’am*re, ma è chiaro fin da subito che per loro non ci saranno molti minuti di presenza.
Nonostante l’ambiguo finale ottimista-amaro, a seconda dei punti di vista, la realtà del film è che Anna e Jacob non vogliono altro che stare insieme, ed è innegabile che ci sia un filo invisibile tra loro che nessuno potrà spezzare. E non importa se si sentono poco per telefono – ma Skype no? – o se si vedono ancora più sporadicamente. Quello che ci insegna la storia del cinema è che l’am*re non si può ingannare o evitare – Sleepless in Seattle, Casablanca, Fandango – e i rari momenti di vera felicità – perché sono rari a prescindere da quanto ci si veda – eclissano i giorni di lontananza e attesa, rendendo inutile e senza senso struggersi nel ricordo o nella speranza.  E al contrario della famosa battuta di Humphrey Bogart in Casablanca, Anna e Jacob non rimpiangeranno mai le loro scelte, né oggi, né domani né mai. E come nelle innumerevoli commedie anni 30 in cui lui – di solito Cary Grant – e lei si sposano o decidono di stare insieme come se non ci fosse domani, anche i due protagonisti di Like Crazy respirano la stessa aria di cieca fiducia in un sentimento che spaventa, ma che non ha eguali. Ci sono legami inspiegabili che non possono essere minimizzati a semplici sbandate, e se prendere decisioni in base a quello che si sente per un’altra persona sembra insensato, allora sarebbe meglio chiedersi che cosa ha veramente senso. Domande le cui uniche risposte possono essere solo quelle dettate da razionalità e giudizio, elementi però del tutto alieni alle vere storie d’am*re. Anche a quelle fuori dal cinema

VOTO: 7

CAMBIO VITA

(The Change-Up) di David Dobkin con Ryan Reynolds, Jason Bateman e Olivia Wilde

Quali sono le regole della vita? Che cosa bisogna fare per essere felici e per essere considerati “normali”? Bisogna avere un buon lavoro, una moglie e dei figli, oppure bisogna godere della vita giorno per giorno senza preoccuparsi del domani?
Dave (Jason Bateman) e Mitch (Ryan Reynolds) sono migliori amici, il primo avvocato, sposato e con tre figli, il secondo single, con una carriera improbabile come attore e con una predisposizione a non affrontare le difficoltà della vita. Grazie a una fontana magica si scambiano i corpi e sono costretti a vivere uno la vita dell’altro creando conseguenze tragicomiche, ma anche imparando dalle proprie mancanze.
The Change-Up non parte certo con i favori del pronostico. Le premesse sono tutt’altro che originali, il regista ha al suo attivo come miglior film The Wedding Crashers (Due Scrocconi a Nozze) e gli sceneggiatori hanno ormai già dato tutto in The Hangover I&II (Una Notte da Leoni). E invece…ecco la commedia che non ti aspetti. Almeno non fino in fondo.
Come usa di questi tempi, situazioni grottesche, volgarità pesanti e gag imbarazzanti – pupù di neonato in faccia, o la moglie sul water dopo cena – la fanno da padrone, spesso per coprire trame e recitazioni non sempre all’altezza. Ma Jason Bateman e Ryan Reynolds sono sorprendentemente a loro agio in ruoli che solamente grazie alle performance dei due attori riescono a essere divertenti, accattivanti e (quasi) mai banali. JB per una volta esce dai panni dell’uomo medio perbene, posato e mai fuori dalle righe – anche se in questo caso solo grazie allo scambio di corpi – e RR deve invece ricomporsi e comportarsi da attore dopo la deludente prova di Green Lantern. Ma è proprio la naturalezza e apparente scioltezza dei due protagonisti che le situazioni o le battute non sembrano essere costruite a tavolino apposta per divertire, ma appaiono invece come spontanee e improvvisate.
Certo non mancano gli stereotipi e i luoghi comuni, come non mancano svolte prevedibili e un finale ancora più prevedibile. Ma se non ci si pongono troppe domande – come fa Mitch nel corpo di Dave a non destare sospetti nel suo studio di avvocato? – e ci si abbandona alla insensatezza della storia allora ci passano due ore inaspettatamente piacevoli.
Non ci si ritroverà con le risposte alle nostre domande esistenziali di tutti i giorni, ma almeno ci si fermerà a riflettere che forse non basta essere sposati e avere dei figli per essere felici, come non basta essere single e godersi in pace la vita….e quindi??

VOTO: 7